Lo strumento
Autore: C. Therese Benoit
Tradotto dall'inglese da Guido Pagliarino
All’inizio, quando l’artefice fece lo strumento, esso era bello e la sua musica era così dolce e limpida che tutti desideravano averlo. L’artigiano diede lo strumento a una giovane coppia che sapeva l’avrebbe trattato con amore. La coppia non escluse l’artigiano. Eseguirono per lui le più tenere canzoni; e lo strumento rispondeva con la sua dolce voce al tocco amorevole della coppia. La giovane coppia ebbe bambini e anch’essi sonarono lo strumento. A volte i bimbi sonavano delicatamente, ma altre, come tutti i bambini, sonavano arie aspre, esprimendo suoni scordati, logorando le delicate corde.
Mentre gli anni passavano, i bambini della coppia crebbero e se ne andarono da casa. La coppia non aveva canti nuovi da sonare allo strumento e così lo diede a un giovane, che promise di averne buona cura. Lo strumento non era felice in questa nuova ignota sede. Desiderava ardentemente le belle arie della propria gioventù, gli amorevoli tocchi dell’antica coppia. Benché l’uomo sapesse comporre tre belle sonate con lo strumento, le sue mani erano sgarbate e le canzoni che eseguiva erano dure e crudeli per la maggior parte del tempo. Lo strumento urlava al mondo la propria angoscia, accorgendosi che il suo intimo, a poco a poco, si stava guastando. Anche quando le tre belle composizioni furono eseguite, lo strumento non poté cantarle con la sua usuale dolcezza. Infine non fu più in grado d’esprimere le canzoni dell’uomo; e l’uomo se ne andò, abbandonando lo strumento. E lì questo sedette - sbattuto, ammaccato, intaccato, graffiato e dolorosamente senza melodia.
Presto, un gruppo di nuovi musicisti trovò lo strumento e lo utilizzò sovente per eseguire le proprie canzoni. Alcuni dei sonatori erano delicati, ma in maggior parte erano tumultuosi, strimpellanti le note volgarmente e sgradevolmente, solo per passatempo e divertimento. Lo strumento, contento per il solo fatto d’aver qualcuno lì con lui, rispondeva meglio che potesse. Provò a insegnare agli esecutori le dolci canzoni del passato che conosceva, ma i sonatori non ne furono interessati.
Molti anni trascorsero e ormai lo strumento non poteva più cantare qualcosa, solo restituire le cattive canzoni che venivano martellate su di lui. Finalmente, quel gruppo di sonatori abbandonò lo strumento, lasciandolo con le proprie cattive canzoni, l’esterno ammaccato e le parti interne fiaccate. Lo strumento non aveva idea di come fosse finito in tale stato. Sua sola consolazione era il ricordo dei bei canti ch’era stato solito eseguire un tempo, specialmente le tre belle composizioni create dall’uomo; e stando seduto in solitudine, meditava su quelle opere.
Un giorno, l’artefice trovò il suo strumento, e provando afflizione per le condizioni del suo bel capolavoro di una volta, invitò un gentiluomo a prendersi cura dello strumento. L’uomo dall’animo gentile portò lo strumento a casa con lui e accarezzò con amore la sua contusa struttura esterna. Lo lucidò e lo rese ancora piacevole al tatto, ma quando provò a sonare i suoi canti d’amore, lo strumento non fu all’altezza d’eseguire un qualcosa di dolce. L’uomo provò frustrazione per non essere in grado d’aggiustare le parti interne e lo strumento sentì gran compassione per lui, desiderò d’essere capace di cantare soavemente per quest’uomo gentile.
Nel buio di una notte solitaria, mentre l’uomo dormiva, lo strumento si rese conto che c’era un solo modo per cantare ancora dolcemente. Sperando di non destare l’uomo addormentato, lo strumento espresse in un urlo il suo rotto canto verso l’artefice, il più forte possibile. La sua canzone risonò nella notte e a quella dolente melodia l’artigiano si svegliò. Immediatamente venne allo strumento e iniziò il suo lavoro. Quando l’alba fu prossima, aveva finito, benché lo strumento fosse ancora ammaccato, graffiato e tagliuzzato all’esterno, i suoi meccanismi interni erano stati sostituiti con parti nuove.
Il gentile uomo si svegliò e, trovando l’artigiano con lo strumento, si meravigliò, dato che quest’artista stava sonandolo e melodie gloriose ne uscivano facendo cerchia attorno alla sua forma pesta. L’uomo gentile, con le lacrime agli occhi, chiese all’artigiano cosa potesse fare per ringraziarlo. “Tenga da conto la strumento come ha sempre fatto”, disse l’artefice, “lo accarezzi e lo lustri con le sue mani affettuose.
“Ma, signore”, replicò l’uomo gentile, “io non sono in grado di far sonare questo strumento tanto bene quanto fa lei: quello è, appieno, il suo fine!” “Sì”, ribatté l’artigiano. “Quello è, perché io resterò qui con lei. Io eseguirò le melodie e lo strumento canterà più dolcemente di quant’abbia mai fatto prima.” E da quel giorno in poi, lo strumento suona costantemente, restituendo i bei canti dell’artista.
E l’uomo gentile ascolta e sorride. Per chi non l’avesse ancora capito, l’artigiano è Dio e lo strumento sono io.
Veritas, 4 giugno 2006 / 2 dicembre 2010